Il linguaggio di Frammenti.
Frammenti è andato in scena nel 1982, a Roma, Teatro in Trastevere.
Al centro di questo mio piccolo teatro è l’attore. Il quale non interpreta un testo, ma lo crea. Non solo perché questo attore ha scritto il copione, ma soprattutto perché questo copione acquista un senso compiuto solo quando viene recitato. Ergo: voce e gesto hanno la stessa importanza della parola. Per questo non ho mai pensato di pubblicare le liriche di Frammenti. Il vero testo non è quello rappresentato dai versi delle liriche, ma è la scrittura scenica fatta di parole, voce, gesti luci, musiche, effetti sonori, scena, costumi. C’è la volontà di scalciare dal teatro la stampella della parola come valore letterario assoluto. Non ho mai pensato- forse per eccesso di umiltà- che le liriche di Frammenti fossero adatte alla lettura. Esse vanno fruite unicamente a teatro.
Solitamente nel teatro di prosa il testo letterario ha un senso compiuto, vero fondamento della costruzione del senso scenico. Attore e regista possono dare soltanto una loro interpretazione: per esempio arricchire le parole di significati desueti; e possono anche togliere senso a quelle parole, come fa Carmelo Bene quando esalta la musicalità a scapito del significato semantico.
Ma il testo letterario classico, quello tramandato da una tradizione millenaria, resta in sé compiuto: ha una storia riconoscibile con un inizio, uno sviluppo e una fine; e personaggi più o meno caratterizzati che la interpretano.
Il teatro di prosa, quindi, partendo dal testo letterario (il dramma che si sceglie di recitare) parte da un senso già prestabilito, sia pure da interpretare, da arricchire, da contestare, da riscrivere o da distruggere.
Nel mio Frammenti il testo letterario è volutamente mancante di senso compiuto, perché la parola deve essere solo uno degli elementi che costruiscono il senso scenico. Ciò accade in tutti gli spettacoli del mondo. Ma nel caso di Frammenti avviene in modo più radicale. Saranno l’intonazione, il gesto, gli effetti sonori, la gradazione della luce- insieme alla parola e, a volte, in modo preponderante rispetto alla parola- a costruire il senso dello spettacolo.
Capisco che tutto questo possa risultare abbastanza difficoltoso per lo spettatore. Di solito quest’ultimo coglie il senso fondamentale dell’azione scenica dalla comprensione delle parole recitate dall’attore. Nel caso di Frammenti questo non basta. Quel poveraccio di spettatore deve fare attenzione simultaneamente a più fattori: a come l’attore dice le parole, quindi ai sottotesti, cioè ai significati trasmessi dalle intonazioni; alla mimica che spesso tradisce il senso letterario (quando ad esempio si sorride pronunciando un contenuto triste); alla musica che non fa solo da commento al testo, ma spesso esprime il vero stato d’animo dell’attore; al gioco di luci che sottolinea o nasconde ciò che sarebbe più importante guardare; al costume e alla scena che spiazzano il messaggio abituale dei segni verbali e mimici, rimandando a significati altri (straniamento).
Come non bastasse, il testo letterario di Frammenti non racconta neanche una storia, perciò ogni lirica dello spettacolo scandita da un breve intervallo di buio, richiede una ricarica di attenzione, richiede ogni tre minuti il porsi di quelle domande alle quali solitamente lo spettatore riesce a dare una risposta solo dopo alcuni minuti: dove si svolge la scena? chi è questo che parla? qual è l’argomento della storia? Che fatica!!!
Di seguito una delle liriche dello spettacolo.
SOSTEGNO
Sostegno!
Scoppiano i soli salmastri.
Sostegno!
La corda è sfilacciata.
Sostegno, sostegno!
Piano, piano si dileguano anche le ombre.
Sostegno!
Al mattino apparve una stella vestita di nero
il viaggiatore zoppo partì da se stesso
ma il mondo
era già finito.
Sostegno!
Coraggio
basta un niente.
Per quello che vale aspettare,
per quello che vale
sperare.
Ti prendo la mano!
Ma sono sporco di pece.
Ti guardo negli occhi!
Ma il muro è ben saldo.
E poi tu hai rotto tutti gli specchi!
Io... io sono più tranquillo!
Ho lasciato le catene sulla strada già fatta
costruisco in silenzio i miei occhi di vetro.
Sto seduto in mezzo alla gente
e nessuno risponde!
Sostegno!!
So
ste
gno
di G. Buchner-
Adattamento e regia di Giampaolo innocentini
Nella foto Alessandro Genesi e Giampaolo Innocentini
Lo spettacolo è andato in scena a Roma, Teatro La Piramide, 1983.
Fedele D’amico ha appena finito di raccontare la storia del soldato cavia tradito dalla sua bella, che sento un forte brivido nel cuore. “Prima o poi metterò in scena il dramma di Buchner”, prometto a me stesso.
Accade qualche anno dopo, nel 1983, al Teatro La Piramide di Roma. La compagnia di Memè Perlini mi dà il teatro, i costumi, versa i contributi agli attori, io li pagherò per quello che posso. Ho pochi giorni di prove, ma è molto che penso alla messinscena, ho tutto abbastanza chiaro nella testa. E poi ho molto ridotto il testo, quasi facendone un “frammento”, come dirà Tommaso Chiaretti dopo una replica, alludendo al mio spettacolo da solista dell’anno prima.
Passeggio per il grande spazio della Piramide, dodici metri di larghezza per ventidue di profondità. La prima intuizione è buona: la scena sarà proprio questo spazio vuoto, gli attori si muoveranno in questo deserto. Alessandro Genesi mi aiuta a sistemare detriti scenografici ai lati dello spazio. Riprendo a ragionare: non ci sono soldi, ma questo può essere anche un bene se riesco a trasformare la povertà in una scelta di stile.
Con gli ultimi spiccioli raccatto quattro proiettori da 500 watt, sono pochi per uno spazio così grande, ed una centralina manuale. Per le musiche- Tuxedomoon, Berio, Glass e Bach- ci sarà mio fratello Stefano ad azionare lo stereo di casa.
Ma torniamo alle luci: che fare? Decido di economizzare al massimo gli effetti. Primo effetto: dal buio Woyzeck- cioè il sottoscritto- entra correndo in scena con una lampada da campeggio, vagolando come una foglia sballottata dal vento realizzato a casa mia registrando il rumore del phon. Secondo effetto: al grido del Capitano che mi chiama si accendono di scatto i quattro proiettori regolati a metà gradazione. Terzo effetto: dopo che Woyzeck ha scoperto che Maria lo ha tradito, lentamente la gradazione della luce aumenta fino a raggiungere il massimo. Quarto effetto: Woyzeck ha appena ucciso Maria e, roso dal rimorso, comincia a tempestarsi di pugni la pancia sempre più forte e velocemente, mentre la luce diminuisce gradualmente fino al buio. Contemporaneamente sale il volume della musica. Applausi.
Un giorno Perlini assiste ad una filata tormentandosi il baffo con la mano. Qualcosa non funziona nel finale. Perlini con generosità mi dà due o tre dritte geniali: i pugni di Woyzeck sulla pancia; l’entrata a sorpresa di Maria rotolando su se stessa; il taglio di alcune battute troppo didascaliche…
Lo spettacolo è una corsa sfrenata densa di simboli (la lanterna, la piccola bara bianca che allude al bambino di Woyzeck e Maria…). Lo stesso Woyzeck parla e si muove velocemente, roso da un’ansia interna, figurina disarticolata alla ricerca di chissà che, obbligato da un dottore criminale a una dieta di piselli che gli sarà fatale. Nel ruolo di Woyzeck mi sbizzarrisco nelle più svariate corse e camminate: a saltelli, di lato, all’indietro, in circolo, velocissimo sul posto, a zig zag nell’enorme spazio… Spesso per me il lavoro dell’attore è coinciso con delle prove fisiche, atletiche.
Solo dopo aver ucciso Maria, Woyzeck si ferma. E’ un climax statuario e provocatorio: sto al centro della scena, immobile, Maria morente appesa per le braccia al mio collo. La stasi si protrae per tre minuti, sotto le note di una sonata per violoncello di Bach. Lo sguardo di Woyzeck è rivolto al buio del soffitto in cemento armato (La Piramide era un ex garage, ora trasformato in palestra), è una posizione faticosa e innaturale, la nuca pesa sulle prime vertebre, in più sostengo il peso quasi morto di Maria. Questa bravata mi costerà un mal di schiena che talvolta mi tormenta ancora oggi.
Finalmente i tre minuti sono passati, sfuma la musica e nel silenzio scivola lentamente il corpo senza vita di Maria, sfiorandomi pancia e gambe. Nel silenzio assoluto risuona il braccio di Maria sul palco di cemento.
Il mea culpa di Woyzeck può cominciare.
Lo spettacolo riscuote un certo successo di critica, ma è difficile piazzarlo, anche perché le compagnie si tengono strette gelosamente le proprie tournée e non hanno interesse a coltivarsi in seno un possibile concorrente. Dovrei io stesso fondare una compagnia. Purtroppo non ci sono mai riuscito. Comunque me ne vado col mio pacchetto di ritagli stampa sotto il braccio da un impresario teatrale. Il quale mi mostra la sua sincera stima e l’altrettanto sincera impossibilità di piazzare il mio spettacolo in giro per l’Italia. Oltretutto non possiedo soldi da investire, né padrini artistici o politici che mi appoggino. Fine dei giochi.
Forse avrei dovuto cambiare impresario. Insistere. Investire anche un anno nella promozione dello spettacolo. Non ce l’ho fatta. Avevo comunque molta voglia di recitare e poca di trasformarmi in un amministratore di compagnia.
Di Woyzeck non resta che un video scolorito e qualche foto in bianco e nero. Quella a cui sono più affezionato ritrae Woyzeck e Maria sdraiati a terra, lo sguardo al cielo.
“Come sale rossa la luna…”
Berenice, La botte di Ammontillado, Il Cuore rivelatore
Traduzione, adattamento e regia di Giampaolo Innocentini
Roma, Teatro in Trastevere, 1985.
Solo come un eremita nel buio della scena. Un fondale arabescato, una sedia, un librone di cartapesta. Niente musica, nessun effetto sonoro. Così, giovane venticinquenne, mi difendo dal frastuono del mondo e di certa scena contemporanea. Mi fa un amico: “Chiedi molto al pubblico!”. Più che al pubblico chiedo molto a me stesso. Sono uno dei tanti presuntuosi? O sto cercando me stesso?
E “me stesso” è il dono acido che posso al pubblico donare. Dono piccolo ma sincero.
Dunque metto in scena tre racconti di Edgar Allan Poe, tutti scritti in prima persona singolare, con la tecnica del narratore interno per rendere più coinvolgente la storia.
Il primo è “Berenice”: un uomo che soffre di monomanie si innamora perdutamente dei denti della cugina, quando questa muore, si reca al sepolcro della donna, viola la tomba e con degli strumenti di “chirurgia dentaria”… come non bastasse, Berenice soffre di morte apparente, per questo il silenzio della notte viene squarciato da un urlo disumano…
Nel mettere in scena il racconto, immagino che il protagonista, Egeus, mentre racconta la sua triste vicenda, sia nel frattempo colpito da un’altra monomania: l’ossessione per una palla da tennis. Alla follia del personaggio si aggiunge la mia: dopo aver tradotto personalmente il testo, lo recito in versione integrale senza operare riduzioni o adattamenti, sempre manipolando la pallina che, proprio grazie alle sue proprietà sferiche, suggerisce diverse soluzioni sceniche: la pallina può essere osservata in modo allucinato tra le mani, può colpire il petto come un atto di dolore, può rimbalzare sia sul gigantesco volume posato a terra quale metonimia della sterminata biblioteca del protagonista, che sul palcoscenico, quando Egeus, confessando finalmente il suo crimine, esplode gridando il suo atto liberatorio.
Il secondo racconto è “La botte di Ammontillado”. E’ la storia di un’assurda vendetta consumata a freddo dal protagonista che, durante il Carnevale, trascina il suo amico Fortunato nelle cantine del suo palazzo col pretesto di fargli gustare un vino pregiato, l’Ammontillado del titolo. Fortunato ormai brillo e sfinito dall’interminabile passeggiata nei sotterranei del palazzo, finirà incatenato e murato vivo in una nicchia ad aggiungere le sue ossa a quelle degli antenati del protagonista. Il narratore non dice qual è la grave offesa che gli ha recato Fortunato. Allora immagino che il narratore sia stato deriso perché claudicante, perciò zoppico vistosamente sulla scena; inoltre poiché interpreto entrambi i personaggi, decido di recitare le battute di Fortunato con la cadenza napoletana, sperando di far ridere (in realtà il pubblico rimarrà silente e agghiacciato per tutto il racconto) e indossando un cappello da giullare a simulare un costume carnascialesco, il tintinnio dei cui sonagli misto al passo claudicante risuona sinistramente nel silenzio della scena.
Per l’ultimo racconto, a mio avviso il più coinvolgente e appassionante, porto alle estreme conseguenze il discorso dell’estrema semplicità (e spero efficacia) delle scelte registiche. Si tratta de “Il cuore rivelatore”. E’ la confessione di un omicidio: un servo, ossessionato dall’occhio d’avvoltoio del vecchio padrone, lo uccide, ne fa a pezzi il corpo e lo occulta sotto le assi dell’impiantito. All’arrivo della polizia, chiamata dai vicini che hanno udito un grido nella notte, il servo si mostra perfettamente calmo e, nel delirio della convinzione di rimanere impunito, comincia a conversare amabilmente coi poliziotti, seduto proprio sul punto esatto dove aveva nascosto il corpo del vecchio; sarà però costretto a confessare l’assassinio poiché colpito da una nuova ossessione: a volume sempre più crescente e insostenibile risuona improvvisamente nella sua testa - ma lui crede che anche i poliziotti lo odano- il battito del cuore del vecchio. Queste le scarne azioni della messinscena: entro in controluce con una sedia fra le mani; la posiziono sulla scena con attenzione maniacale a farla coincidere in un determinato punto (quello dove- si scoprirà in seguito- è sepolto il vecchio); mi siedo e dopo essere stato bagnato dalla luce di due “tagli” (sagomatori laterali) comincio il racconto, le mani sulle cosce, il corpo pietrificato nel tentativo di dimostrare il completo autocontrollo del personaggio (che spesso nella narrazione vuole convincere il lettore- spettatore di non essere “pazzo”); seguono soltanto due piccoli colpi di scena: uno sonoro (il singulto della risata- pianto dopo l’uccisione del vecchio), l’altro visivo, l’alzata in piedi di scatto prima dell’epilogo “Sradicate le tavole, è qui, è il battito del tuo terribile cuore”.
Nel corso degli anni ho recitato i racconti con diverse modifiche: innanzitutto ho ridotto il testo per renderlo più adatto alla messinscena e più godibile ad un più vasto pubblico; poi ho introdotto effetti sonori e musicali a commentare l’azione scenica, anche per contrasto (come una tamurriata della Nuova Compagnia di Canto Popolare ballata dal sottoscritto dopo l’uccisione di Fortunato); ma soprattutto ho migliorato (spero) la recitazione che si è fatta più espressiva e comunicativa, giocata in preferenza sui toni medio- bassi che hanno irrobustito la dizione; anche il corpo è più libero di muoversi, al limite anche di gesticolare, meno imprigionato dalla concezione di Decroux (che da ragazzo molto mi aveva suggestionato) che ha come obiettivo una gestualità non necessariamente legata alla pantomima (la ripetizione con il corpo del significato delle parole) o relegata a semplice supporto della parola, per strutturare sulla scena un corpo statuario dai movimenti antinaturalistici. Il fatto è che assumendo in modo dogmatico l’insegnamento di Decroux (o quel che mi pareva fosse il suo insegnamento), tendevo a volte da giovane ad assumere una certa rigidità nei movimenti che cozzava con gli obiettivi della comunicazione. Ossessionato dall’evitare certi vezzi del teatro psicologico- naturalistico (le mani in tasca, il giocare con i bottoni di una giacca, l’accendersi una sigaretta, l’asciugarsi il sudore col fazzoletto…) riproducente sulla scena il comportamento della vita quotidiana, finivo per costringermi formalisticamente ad una immobilità, ad una staticità che a volte poco aveva a che fare col testo che recitavo. A superare questo impasse, mi aiutò soprattutto un collega attore di cui non ricordo il nome, mi disse semplicemente: “Mentre reciti, non pensare alle mani”. La soluzione era semplice!
Tornando alla recitazione, molto debbo essere riconoscente a Giancarlo Cobelli, che mi ha diretto nel “Riccardo II” di C. Marlowe. Giancarlo mi stimava molto, almeno quanto mi rimproverava: da lui ho imparato ad accorciare la distanza fra attore e spettatore con una recitazione che ha lo scopo di rompere quella membrana protettiva che a volte mi costruivo per migliorare la concentrazione e nello stesso difendermi da quella bestia nera che s’incarna nel pubblico allo spegnersi dalle luci di sala. Mi ha insegnato- o per meglio dire convinto- a spostare il mio sguardo dal palcoscenico all’ultima galleria del teatro.
Magari i metodi di Giancarlo sono stati un po’ brutali, ma… a fin di bene!
coreografia e regia di Patrizia Cerroni
Giampaolo Innocentini
Giampaolo Innocentini, Massimiliano Martoriati, Patrizia Cerroni
Hyde ed Eva, Teatro Olimpico, Roma, 1995.
La mia 127 corre veloce sulla Pontina. L’aria fresca della notte mi schiaffeggia il volto, non sento altro che il frastuono dello stereo che sputa fuori il rock di American Graffity. Come mi è accaduto spesso in questo breve viaggio, mi sento libero ed euforico. Per cosa non ho ben chiaro. Qui c’è solo un catorcio che sfreccia via su una strada buia, un vecchio stereo che muggisce e i caseifici al latte di bufala appena oltre la linea d’emergenza. Eppure mi basta, mi sento felice.
Ma forse non sono del tutto sincero. Forse so cosa mi fa stare così bene. Ho ancora negli occhi e nelle orecchie quello che è successo appena un’ora fa: ho provato con una compagnia di danza. La coreografa vuole mettere in scena uno spettacolo sul tema di Jeckyll e Hyde, sta cercando Hyde. Dopo la prova è certa di averlo trovato: sono io. Ho proposto uno dei miei cavalli da battaglia, un brano di Lautréamont.
L’ho eseguito a voce piena per una decina di volte, senza risparmiarmi. Tutti i ragazzi della compagnia sono stati molto gentili con me, mi hanno subito messo a mio agio, forse perché, non essendo un danzatore, non hanno visto in me un rivale. Durante le prove mi hanno più volte fatto i complimenti. Ho ricambiato, tutta la compagnia mi pare di ottimo livello.
Patrizia Cerroni, la coreografa, ama le improvvisazioni. E’ un modo di lavorare molto faticoso, nel contempo esaltante. Ho giocato ad interpretare animali malvagi, mi sono divertito specialmente a fare il coccodrillo ed il serpente.
Le ragazze mi hanno veramente impressionato: che corpi armoniosi, che grazia! Tra loro c’è molta competizione. Anche perché la grandezza del ruolo dipenderà dall’impegno e dall’inventiva mostrata nelle improvvisazioni. A un certo punto mi giravano intorno danzando come menadi invasate, terrorizzate ed insieme attratte dal mostro che impersonavo. Una di loro mi ha particolarmente colpito per la dolcezza dello sguardo. Subito dopo il lavoro di gruppo mi propone un’improvvisazione a due.
Ci allontaniamo di alcuni metri uno dall’altra, in diagonale. Io, in proscenio, inizio il monologo. Di tanto in tanto la guardo furioso, lei danza sulle mie parole morbida e sinuosa come una sirena celeste. Il suo corpo si dilata magicamente riempiendo tutto lo spazio circostante, incidendo nell’aria nitidi e indelebili arabeschi. Per effetto di una misteriosa sospensione, ogni gesto rimane impresso nello spazio mentre simultaneamente il braccio o la gamba che l’ha compiuto comincia a tracciare un nuovo movimento. Stupefacente! E poi, come fanno i suoi piedi a non toccare mai terra? Sul finire del monologo la mia sirena si rannicchia terrorizzata sul fondoscena. Allora sboccia l’inaspettato. Sul mio urlo di rabbia, dolore e protesta si innesta l’urlo della danzatrice, muro sonoro a respingere la minaccia del mostro, disperata affermazione di vita. Resto attonito per la sorpresa mentre i nostri cuori corrono uno verso l’altro sul filo teso dalle voci all’unisono.
Quando si incontrano è il silenzio. Poi nei miei orecchi si risveglia timido un bisbiglio di voci indistinte sopra il manto di un profumo inebriante. La sirena scompare dietro l’esplosione silente di una luce accecante. Mi proteggo gli occhi con le mani.
Quando li riapro una luce lunare ridisegna il corpo immobile della sirena, mentre gli arabeschi della sua danza, sopravvissuti nello spazio, si dissolvono dolcemente.
Hyde ed Eva va in scena alla fine di agosto, fra i ruderi dell’antichissimo tempio di Giove Anxur, sul promontorio di Terracina. Se ci si affaccia dalle mura che cingono il tempio, lo sguardo si perde negli azzurri di cielo e mare dispiegati a 180 gradi, confinanti sulla linea convessa della rotondità planetaria.
Lo spettacolo si snoda nell’informale, materica e strutturalistica scena di Fabio Mauri, vecchio esponente della scuola d’arte romana della Piazza del Popolo anni Sessanta: una serie di cubi praticabili di cartone di varia grandezza che noi attori-danzatori spostiamo continuamente modellando a piacimento lo spazio scenico. Quel che è veramente raffinatissima e originale e strabiliarmene stimolante per le azioni sceniche è la colonna sonora del grande Dino, commesso in un negozio di CD a Piazza Irnerio. I brani spaziano dai Tuxedomoon a Zakir Ussein, da Piazzolla a Strauss…
I corpi delle danzatrici spandono profumi e vibrano al picchiettare della brezza notturna, vellicati dal morbido ondeggiare di seriche vesti. Noi maschiacci spostiamo cubi, facciamo gli equilibristi, solleviamo imponenti gabbie di legno, saltiamo sulla scena urlando frasi sconnesse come full shakespeariani. Due danzatori mi fanno volare al di sopra delle scatole, come un’aquila ubriaca. Poi nella scena delle fughe rincorro furente e disperato ragazzi e ragazze che si tuffano nelle più disparate acrobazie. Schizzo da una parte all’altra della scena come una pallina da flipper e nello stesso tempo urlo come un forsennato; oppure cammino a quattro zampe come un coccodrillo (sento di avere la mascella grandissima e piena di denti acuminati); con le braccia tese davanti a me e le mani giunte fendo l’aria sinuoso a mo’ di freccia, sibilando come un serpente; oppure cammino come un avvoltoio affondando al rallenti gli artigli nel palcoscenico, nello sterile inseguimento di una tenera preda.
Poco prima mi ero cimentato nella trasformazione da Jeckyll in Hyde disperdendo nello spazio brani del mio corpo tarantolato al ritmo irregolare e sincopato di un paio di bongos. Una volta compiuta l’opera, mi aggiro libero e disarticolato per la scena con la parte sinistra del corpo che se ne va per conto proprio, specie la spalla ed il collo, che eseguono rotazioni ossessivamente ripetitive alla maniera di Luis Barrault nel Testamento del mostro di Renoir. Tutto questo mentre intono i versi di Lautréamont, fino a scaraventare al cielo l’opprimente gabbia delle costrizioni sociali. Allora tutto è pronto per il delitto e il pentimento. Recito quest’ultimo gigioneggiando da piacione col microfono, tenendo la giovanissima e bionda vittima sulle ginocchia. Addormentata, non morta, cosa pensate? Le fiabe paurose non hanno mai ammazzato nessuno!
Si procede fra lacrime di gioia fino al catartico walzer finale sulle note di Strauss. Tutti vestiti di bianco, sono tutti diventati buoni i vari Hyde che hanno tempestato la scena danzando (nella replica del Teatro Olimpico a Roma i Mr Hyde saranno almeno quattro!). Tutti buoni e bianchi nel finale a tarallucci e vino, tranne me, precauzionalmente fuori scena come la pantera dopo il numero del domatore, io in divisa da travet anni Sessanta ma a piedi nudi, il petto nudo alla brezza dei venti di quinta.
Castello di scatole, bimba in cima a mo’ di bella statuina (il trionfo del bene, della purezza, dell’infanzia, eccetera…) Fine della recita.
Applausi!
Il programma delle serate futuriste organizzate da MICRO a Roma nel 2005 . Direttore artistico Salvatore Carbone.
“Come fai ad avere tutta questa grinta?” “Non lo so”, rispondo scavalcando il volto della ragazza. Il regista Mario Ricci gongola soddisfatto.
Siamo nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, un migliaio di spettatori sono seduti a terra, gambe incrociate. Ho appena proposto al pubblico i miei giochi futuristi: c’è chi si è divertito interpretando la mitragliatrice, chi il semaforo, chi una foglia mossa dal vento. Altri si sono misurati nella declamazione dinamica e sinottica di Marinetti, provando, con i miei suggerimenti, a dare consistenza fisica alle parole, a comunicare i “sentimenti” delle piante, dei motori, degli arditi salti analogici delle parole in libertà…
Ora mi sto dirigendo verso il proscenio per declamare “Le beghine” di Palazzeschi. Tutte le luci restano accese, Tra il pubblico scende il silenzio. Comincio lento, poi sempre più veloce, il mio corpo si contrae in gesti grotteschi fino all’acuto finale: “Via! Via!!”. Una grandinata di applausi mi sommerge, risuona finanche qualche bis.
Queste serate futuriste mi stanno dando una soddisfazione inaspettata, è la prima volta che faccio il presentatore, il presentatore futurista, e mi sto divertendo come non mai. E mai prima d’ora il pubblico mi ha dimostrato un gradimento così eclatante.
Il mio presentatore futurista- capelli all’indietro stirati dal gel, frac e papillon bianco- indossa una maschera d’acciaio, ironico e canzonatorio con il pubblico; spietato verso i critici. “Lei è un critico donna? Vada a fare la calza! Anche lei è un critico? Uomo, vorrebbe specificare. Questo è da vedersi. Più tardi, signore e signori, vi parlerò di come il critico teatrale non possa che essere… impotente! L’artista crea, il critico beeeeela!!”. E così via.
Ma quanto piace al pubblico essere maltrattato! Non lo credevo. Mitraglio improperi contro il femminismo e la parità fra uomo e donna. Inesorabilmente qualcuna cade nel tranello e mi urla “fascista!”. Nasce un battibecco, io ci sguazzo, proprio quello che volevo. Poi afferro per la mano una bella ragazza e la costringo ad un rapporto sessuale futurista dietro le quinte: rapido, igienico e sintetico. Durata: due secondi con mio urlo beluino finale ed altissimo gradimento della ragazza che sta al gioco divertita. Applausi e risate.
Oppure con voce metallica martello a muso duro le parole di qualche manifesto futurista, muovendo le braccia come l’elica di un aeroplano, come la punta di un missile, come le lancette di un orologio impazzito… Tutto questo fendendo a rasoiate le file del pubblico, costretto finanche a sorbirsi l’invenzione del mio “Piano regolatore della città di Roma per la limitazione del traffico e dell’inquinamento”. Così nella sala propongo “l’abbattimento del mostruoso e antiestetico Altare della Patria e delle Mura Aureliane”. Nonché: la trasformazione dell’essere umano in uomo-mobile, il quale si alimenterà esclusivamente di aria, con la conseguente eliminazione del costo della benzina. Semplice, no? Urbanisti e politici sono proprio imbecilli a non averci pensato prima!” Segue l’allenamento del pubblico per trasformarsi in uomo-mobile.
Poi i miei compagni guidano gli astanti nelle sale di altre serate futuriste, quelle ideate da Salvatore Carbone e Serena Dell’Aira. Che spasso la declamazione della cucina futurista! “Agli italiani la pastasciutta fa male! Li rende passatisti e neutralisti.” E via ad elencar gli ingredienti di ricette ben più pesanti del vituperato piatto di glutine. Come ad esempio La Beccaccia al Monte Rosa salsa Venere. “Guardate come si riducono gli italiani a mangiare la pasta!”, dico afferrando un signore con un po’ di pancetta. Quindi gli faccio addentare le squisite “Mammelle italiane alla crema”, due giganteschi budini sormontati da due ciliegie, ad imitare le grazie muliebri, adagiate su una glassa raffigurante il tricolore. E ad una gentile signora porgo in assaggio un rustico con sorpresa. Infatti, dopo il primo morso, le appare nella bocca un fogliettino coi versi di un poeta italiano da riconoscere. O ancora mi avventuro in un esperimento di cucina tattile, dove un signore attempato gusta un’altra pietanza passando una mano su feltro, chiodi, carta vetrata e spugna.
Qui posso anche rispolverare alcune liriche del mio vecchio Frammenti, quali esempi di Neofuturismo; recitare E lasciatemi divertire di Palazzeschi dondolando su un variopinto aeroplano appeso al soffitto, creazione del geniale Carlo Montesi; e declamare le parole in libertà di Marinetti dialogando con il pianoforte, il contrabbasso, la fisarmonica ed il clarino del gruppo Alea Nova. Prove: soltanto una; musica: composta al momento; successo di pubblico: molto grande.
Infine, mentre assaggio le melanzane sottolio del grande Michele- artefice del pirotecnico buffet dopo teatro- ricevo la più grande soddisfazione professionale della mia vita. Si avvicina Luce Marinetti: “Nessuno ha mai recitato così bene i versi di mio padre.”
di Giampaolo Innocentini
L’attore futurista ha un corpo espanso. Travalica i confini del palcoscenico, per “strabordare” fisicamente nella sala. Recita cambiando continuamente postazione, correndo o camminando lentamente, obbligando il pubblico a muoversi con lui per seguirne le gesta. Prolunga ulteriormente voce ed arti attingendo alla strumentazione onomatopeica (tofa, scetavaiasse, triccabballacche, putipù), scrivendo su lavagne dislocate nello spazio equazioni, teoremi, analogie, tavole sinottiche di valori lirici. E’ artefice di un caos più o meno organizzato che, grazie alla componente aleatoria della reazione del pubblico, annulla la separazione fra spazio della scena e spazio dello spettatore.
La differenza rispetto all’attore passatista è totale. Questo è protetto da pesanti quinte e tendami, a distanza di sicurezza dal pubblico immerso nel buio, chiuso in se stesso, concentrato a rendere la psicologia del personaggio. Inoltre è inchiodato sulle gambe, muove eccessivamente tronco e braccia come un vigile urbano o come un direttore d’orchestra impegnato a cadenzare, sottolineare le frasi. La sua gestualità non può che essere decorativa, puro sostegno della parola.
Tornando all’attore futurista, questi rifiuta la psicologia perché il suo scopo non è quello di ricostruire il comportamento quotidiano, ma di creare una realtà altra. Perciò voce, mimica, gesti verranno disumanizzati per cogliere il lirismo della materia, imitando i motori e i loro ritmi anche a scapito della comprensione del testo. Inoltre la recitazione futurista, con la scena e gli effetti sonori che ne scaturiscono, contribuisce alla pari con le parole alla produzione del senso teatrale. Anzi, si può dire che solo se declamate le parole in libertà acquistino completezza semantica. Queste non sono scritte per la lettura silenziosa, sono scritte per l’esecuzione dal vivo, come dimostrano i caratteri tipografici che trasformano il testo in uno spartito musicale: solo con la recitazione sarà infatti possibile rendere in modo completo le suggestioni dell’aggettivo-faro, dei verbi all’infinito, degli accordi onomatopeici.
In parte ispirata a Mallarmé per la distruzione della sintassi, in parte ai decadenti (Poe in primis) per la fusione delle arti, questa letteratura estrema si realizza compiutamente proprio nella recitazione di un attore-virtuoso in grado di produrre simultaneamente ritmi ed azioni diverse con parti diverse del suo corpo. Allora se la voce sparerà le parole come le raffiche di una mitragliatrice, una mano scriverà sulla lavagna con infinita lentezza una formula matematica, mentre l’altra magari suonerà il triccabballacche!
E tutte le azioni dell’attore futurista, vocali, gestuali e musicali- saranno illuminate dall’immenso sogno-faro-guida dell’analogia, la figura retorica regina di tutta la poetica futurista. L’analogia, nell’accostare realtà lontane fra loro tagliando i ponti del pensiero logico, realizza la vera immaginazione senza fili, l’esplosione di un lirismo capace di cambiare in vino l’acqua torbida della vita che ci avvolge e ci attraversa, un lirismo che ispirandosi alle zone di vita intensa (rivoluzione, naufragio, terremoto e- purtroppo- guerra) sappia mettere in scena un’esistenza nata dal culto della Macchina e della Velocità, in un’Italia, quella del primo Novecento, ancora profondamente contadina, in forte ritardo nell’industrializzazione, quindi poco toccata dalle problematiche che quel fenomeno aveva sollevato in altri paesi.
I futuristi vogliono cambiare l’arte perché vogliono cambiare la vita. Il declamatore futurista diventa così provocatore e sobillatore di masse. Per questo attinge alle risorse del Teatro di Varietà, un teatro antipsicologico, che irride i capolavori del passato, un teatro che vuole sorprendere, stupire, coinvolgere il pubblico. Le serate futuriste dovranno dunque comunicare una sferzata di gioia, ottimismo e spensieratezza, per realizzare il sogno di un mondo privo di grandi maestri e professori, in cui cacciando- come afferma Poe- la ragione inferma e solitaria- tutti sappiano costruire, più che un’arte, una vita nuova.
A cento anni esatti dalla fondazione del Futurismo la lezione di Marinetti e compagni è stata ben assimilata dal linguaggio della pubblicità e dei videoclip, nonché da certo cinema e certo teatro. Ciò nonostante i caratteri distintivi del Futurismo vengono ancora oggi considerati avanguardia, non sono diventate convenzioni. Se infatti consideriamo ad esempio i modelli narrativi dominanti, quelli che riscuotono maggior successo, vediamo che si rifanno alla grande tradizione del romanzo ottocentesco, in cui il lettore deve abbandonarsi alla storia, guidato passo passo da un intreccio accattivante e dal carattere a tutto tondo dei personaggi. Questo modello narrativo oggi viene applicato con successo anche alla maggior parte dei film e degli sceneggiati televisivi.
Per non parlare della recitazione, dove- a parte qualche illustre caso isolato (Carmelo Bene su tutti) ed alcune compagnie che, almeno in Italia, non hanno un grande seguito, domina incontrastata la recitazione passatista, fondata sulla psicologia del personaggio e l’imitazione del comportamento quotidiano.
Tra le ragioni di questo status quo vi è quella per cui è oggettivamente difficile fruire il linguaggio futurista. Occorre infatti uno scatto intellettuale non indifferente per cogliere e gustare la poesia delle analogie, delle simultaneità spazio-temporali, delle metafore ardite, delle sinestesie (accostamento di sensazioni provocate da organi sensoriali diversi). Occorrono studio, allenamento e soprattutto una decisa volontà pedagogica degli operatori culturali, che preferiscono invece spesso assecondare i gusti facili del pubblico per conseguire altrettanti facili successi anche se poco duraturi, piuttosto che seguire il monito del futurista Majakovski, secondo il quale l’artista non deve smorzare la propria originalità espressiva nel timore di risultare troppo difficile per il pubblico, ma spiegare con la pazienza del divulgatore appassionato le ragioni della propria arte.
Ma oggi, in un mondo dove i poteri forti della politica e dell’economia vorrebbero una società composta esclusivamente di spettatori-consumatori, e dove la velocità delle telecomunicazioni ha raggiunto livelli inimmaginabili che però rischiano- se mal utilizzati- di relegare l’individuo nel microcosmo di uno schermo tanto ammaliante quanto virtuale, la carica eversiva del Futurismo resta intatta.
Non tanto nell’esaltazione di una Tecnologia oggi più che mai non al servizio dell’uomo (com’era nell’antichità quella proposta da Prometeo) ma al contrario dominatrice di un’umanità ridotta a semplice ingranaggio di un meccanismo autoreferenziale che produce- specie nelle grandi città- inquinamento, alienazione, anaffettività ed ansia da prestazione. Il paradosso del Futurismo oggi è che il suo linguaggio- esaltazione del sogno e dell’intuizione lirica- può contrastare proprio l’ottusa funzionalità di quelle Macchine- la Produzione fine a se stessa e lo Sviluppo non sostenibile- alle quali la nostra civiltà appare votata a scapito dei valori umani.
Allora le Serate Futuriste nel breve spazio di qualche ora costruiscono realmente un mondo altro, un futuro fatto di rapporti poco virtuali e molto tangibili. Esse sono lo spazio del Gioco e della Festa, dove non ci sono più spettatori ma solo attori, dove maestri e professori muoiono perché non c’è più bisogno di loro, poiché tutti i partecipanti accendendo i motori dell’intuizione lirica riescono a seguire la propria luna d’agosto errante nelle profondità delle notti.