Giampaolo Innocentini nello spettacolo Baby Budd, da Melville, regia di Marcantonio Graffeo.
Carmelo Bene
Dalla TV in bianco e nero della cucina appare in piano americano un uomo elegantemente vestito di nero. Come nerissimi sono i suoi capelli che incorniciano un viso ancora giovane ma sfatto, ricoperto da una pesante patina di cerone. L’uomo sorseggia con eleganza una coppa di champagne, parla con tono nasale, quasi senza articolare le labbra. “Io sono l’unico che ha avuto il coraggio di strappare una bandiera rossa”. Così prende un drappo morbidamente adagiato su una sedia e comincia a lacerarlo.
L’uomo è Carmelo Bene e sta promuovendo Quattro modi di morire in versi, su testi di Majakovskij, Blok, Esenin, Pasternak, uno dei programmi più coraggiosi mandati in onda dalla RAI, non alle due del mattino, ma in prima serata, dopo il TG delle 20:30.
Un solo attore in scena- Carmelo, appunto- alle sue spalle un’esplosione di colori, soprattutto fiamme, realizzate in cromachì. La sua recitazione è nello stesso tempo miracolosamente artificiale e sincera, fatta di parole sussurrate, inghiottite; di urla lancinanti, metalliche; di ruggiti, sputi e pernacchie; di toni straniati ed epici. I primissimi piani evidenziano i tic nervosi degli occhi, il tremolio delle gote, il bianco della saliva che orla gli angoli della bocca, le rughe precoci che solcano la fronte. Geografia impietosa di un’anima.
Mai nessuno, dopo Carmelo, ha più cantato con così grande sarcasmo, passione e rabbia il crollo degli ideali della Rivoluzione Russa.
Eduardo De Filippo
“Te piace o presepe?”
C’era un tempo in cui la RAI ogni venerdì sera mandava in onda degli spettacoli teatrali. Il ciclo delle commedie di Eduardo fu un appuntamento imperdibile, attorno al quale si riuniva tutta la famiglia. Dallo schermo si sprigionava un calore fatto di scialli a uncinetto, carte da parati pastello, caffettiere fumanti, parole in dialetto che sapevano di casa, di Natale, di ragù di carne, di cotolette di agnello, di passeggiate al prato, di circoli di sedioline su cui mamme e nonne guardavano noi bambini giocare; sapevano di una Napoli sognata e mai veduta, sapevano della dolcezza di mia nonna Gilda, della simpatia di zia Sisina, che da quella Napoli venivano.
Eduardo. Il suo volto scarnificato, le sue pause dense di pensiero, quel balbettio inarticolato che precedeva le parole, i piccoli gesti misurati, chiari, comunicativi.
Ricordo una delle sue ultime apparizioni a teatro, Il berretto a sonagli di Pirandello, tradotto da Eduardo in napoletano. A parte la scena finale in cui il protagonista mima la pazzia di Beatrice saltellando da seduto su un divano e gesticolando come Pulcinella; mi colpì soprattutto il dolore di Ciampa- Eduardo, indifeso di fronte all’accusa di essere cornuto.
Nel silenzio Eduardo, spalle al pubblico, si diresse verso il fondale. Raggiuntolo vi appoggiò il braccio e il volto. Poi iniziò a sussultare lievemente le spalle. Nel teatro il silenzio si fece ancor più silenzioso.
Quel pianto senza suono ci gelò il respiro in gola.
Robert De Niro
Avevo una ferita non guarita. Mi sentivo solo. Poco integrato fra eskimi, collettivi politici e ducetti sinistresi. Cercavo il nido che prima mi offriva la famiglia. La vita non mi bastava. Per questo usavo il sarcasmo che spesso mi rendeva odioso.
Un pomeriggio entrai in un cinema d’essai. Davano la storia di un tassista che per salvare una ragazzina dalla prostituzione compiva una carneficina.
Anche quel tassista era solo, poco integrato. Anche lui aveva problemi ad amare e a farsi amare. Era un reduce del Vietnam. Parlava da solo. Prendeva a calci la TV. Cercava uno scopo nella vita. Non sopportava ingiustizie e indifferenza.
Per questo tornò soldato. Si armò con armi nascoste. Canalizzò la sua rabbia fino all’epilogo vittorioso. Divenne un eroe. Ma non scrisse libri. Non sfruttò la sua popolarità in programmi televisivi. Dopo il bagno di sangue tornò a fare il tassista.
Anch’io avevo tanta rabbia in corpo. Pensai di poterla canalizzare sulla scena. Pensai che fosse possibile immolarsi al teatro, farne una religione. Fuggire dalla maschera sociale indossando tante maschere, trasformarmi in un caleidoscopio di identità fino a perdere me stesso.
Come quel grande attore che interpretò il tassista: Robert De Niro.
Pupella Maggio
“Hi… ma sì furente !”
Ero appena saltato dalla cima di un armadio, scagliandomi contro Pupella Maggio, che questa commentò sorridente la mia azione di “fantasma”.
Poco dopo strabordai in un urlo espressionista. “Ammazza!”, intonò sordianamente il regista Antonio Calenda.
“Vedi, Giampaolo”, mi disse Pupella con la sua voce tremolante, “la risata la devi preparare, come la fai tu non è naturale.”
Gli occhi di Pupella mi insegnarono che la tecnica senza l’umanità non è niente. Mi insegnarono che l’attore deve fare le cose difficili senza mostrare la fatica.
Pupella entrava in camerino qualche ora prima dello spettacolo. Nessuna immedesimazione stanislavskijana. Lavorava all’uncinetto, sistemava il costume, si truccava lentamente. Mi insegnò a stendere la polvere di riso sul dorso della mano prima di applicarla sul fondotinta.
Mi fece l’onore, una domenica, di pranzare a casa mia, con la mia famiglia.
Siamo tutti in fila sul proscenio. Ci inchiniamo dandoci la mano. E’ l’ultima replica e per la prima volta mi dispiace che uno spettacolo sia finito. Provo un dolore misto a tenerezza, ho i lucciconi agli occhi. Mi mancheranno gli occhi di Pupella.
Stasera uno spettatore poco rispettoso ha osato gridarle “Voce!” da un palchetto, e lei con leggera stizza, di rimando, “Sono affari miei, di che ti impicci?!”
All’uscita dal teatro una piccola sorpresa: Pupella mi regala un pupazzo di tela, un piccolo fantasma.
Ancora oggi è ancora al suo posto nella mia libreria.
Marcantonio Graffeo
“Tu trasferisci la tua ansia interna, l’ansia di Giampaolo, nel personaggio. All’inizio dello spettacolo non devi avere fretta, non devi avere paura di annoiare. Avrai tempo per esplodere nella follia del finale!
All’inizio, invece, devi dominare la scena solo con la tua presenza. Devi sentirti grande, pesante, immaginare di avere una voce bassa, roca, profonda. Devi muoverti lentamente, con gesti posati e misurati. Puoi farcela, dipende solo da te. Devi convincerti che è la soluzione più giusta. In questo modo la follia di Gambine crescerà lenta, ma inesorabile. Sarà come un veleno a piccole dosi che ipnotizzerà il pubblico.”
Così a Palermo, dopo lo spettacolo su Billy Budd di Melville, mi parlava il regista Marcantonio Graffeo. Eravamo nel camerino e lui si rivolgeva a me con dolcezza e fermezza, una goluase tra le dita. Lontano dalla fretta con cui certi grandi registi si rivolgono ai giovani attori.
Poco prima avevo esposto il dito medio a quella parte del pubblico che mostrava di non gradire lo spettacolo. Eravamo solo due in scena e l’altro non parlava, eseguiva delle azioni mimiche. Io mi sentii attaccato, cominciai dentro di me a dare la colpa del parziale insuccesso all’adattamento del testo poco comprensibile, alla regia, alla musica onnipresente per tutto lo spettacolo sulla mia recitazione.
Marcantonio entrò nel mio camerino. Con la sua dolcezza riuscì a convincere un presuntuoso ed egocentrico come me che si poteva migliorare la recitazione.
Fino a ipnotizzare il pubblico. Come accadde qualche sera dopo al teatro comunale di Enna.
Achille, mio padre
Una sera crocifissero mio padre. Si aprì il sipario e me lo trovai inchiodato sulla croce. Mi stupì la misura della sua recitazione. La calma con la quale accettava il martirio. La dolcezza con cui pronunciava: “Lasciate che i pargoli vengano a me”.
Mio padre Achille era alto e robusto. Aveva una voce potente da basso. Da ragazzo aveva recitato nella compagnia parrocchiale dell’Istituto Don Orione. Parecchi anni dopo lo richiamarono per interpretare Cristo.
Mio padre nella vita aveva spesso un comportamento sopra le righe, teatrale, ricordo soprattutto la sua risata travolgente. Era un uomo sincero fino a far male: di solito non sapeva dissimulare i suoi nervosismi e le sue paure. Specie in famiglia. Ma nelle situazioni importanti, quando voleva, sapeva perfettamente dominarsi. Come gli attori veri.
Quando gli dissi dopo la maturità che avrei voluto fare l’attore litigammo furiosamente. A un certo punto lo presi a pugni sulla schiena. Lui si voltò con calma e, chirurgicamente, mi colpì piano alla bocca dello stomaco, facendomi piegare in due dal dolore.
Alla fine giungemmo a un compromesso: avrei studiato recitazione e al contempo mi sarei iscritto all’università.
Una decina di mesi dopo, poche settimane prima che morisse, venne a vedermi recitare il “monologo della lucertola” tratto da Non si sa come di Pirandello, nel piccolo teatro della scuola di recitazione Accademia Sharoff. Raramente mio padre mi lodava dopo qualche mio piccolo successo. Forse per paura che mi montassi la testa. “Hai fatto il tuo dovere”, era il commento più ricorrente quando prendevo un bel voto a scuola. Ma quella volta, chiuso nel suo loden verde, infreddolito e dolorante, espresse con le lacrime agli occhi il più grande attestato di stima e ammirazione verso suo figlio.
Una sera mio padre concluse la sua passione. Ultima stazione: il suo letto e una candela profumata per cacciare l’odore della morte. Mentre lasciava questo mondo mi faceva paura, come quando da bambino, per rimproverarmi, mi guardava torvo. Inspirava, poi si bloccava con gli occhi vitrei, spalancati, infine espirava con violenza, in modo meccanico, come se fosse già morto.
Non avergli tenuto la mano mentre mi lasciava continua ad essere il mio più grande rimorso.